22.11.15

« Trois couleurs, un drapeau, un empire » della Ditta ‘I sempiverdi colonialisti di Mondo Occidentale





Il sangue e l’orrore che a pochi minuti dalla mezzanotte di venerdì 14 novembre hanno colpito Parigi, in più riprese e in più punti, hanno ricordato bruscamente alla borghesia internazionale quanto sia violento e ripugnante il terrorismo e tra l’angoscia e la rabbia, nelle lunghe ombre che si sono disegnate dopo quella notte, livida, imbastisce la canzone vecchia e disonesta della guerra giusta che necessariamente faccia da contrappeso e sia e dia risposta alla guerra santa. E così, l’Occidente di tradizione cristiana – per taluni il distinguo è così faticosamente ed inutilmente importante - riprende, dall’armadio della storia, la cotta, l’elmo e le brache di ferro e tuona contro l’Oriente, di barbarie integralista musulmana, tanto che la Francia passa subito ai fatti, per quella nemesi che evidentemente si rende necessaria, bombardando Raqqa, capitale dell’autoproclamato Stato Islamico, sicuramente per vendicare i suoi morti, ma magari anche per attestare la propria presenza attiva in zona e con l’attenzione mai cessata ai propri interessi, distribuiti un po’ dappertutto in quell’angolo di mondo. Senza costruirci architetture dietrologhe e fantastiche, l’equazione rimane priva di ogni forma di intellettualismo complottista e racconta, senza ombra di smentita, che l’attentato o meglio, la possibilità di attentati a Parigi, era una eventualità da considerare nelle cose possibili, anche perché a questo si aggiunge il fatto che l’intelligence Irachena aveva avvisato quella Francese della concretezza di questa minaccia e la notizia non è una velina di anonima attribuzione ma la dichiarazione che ne fa, il ministro degli Esteri di Baghdad, Ibrahim al Jaafari, appena due giorni dopo quel putiferio che ha visto centoventinove morti ammazzati e più di trecento feriti. 




“Fonti dell’intelligence irachena hanno ricevuto informazioni in merito ad attacchi terroristici in preparazione in diversi paesi, compresa la Francia, gli Stati Uniti e l’Iran. E a tutti loro è stato comunicato.”, questo, infatti, è quanto, a margine dell’incontro di Vienna sabato sera, ha dichiarato al-Jafari, non aggiungendo altri dettagli, se non quello di aver avvertito Parigi. Ma in tutto questo periodo la Francia, non è davvero rimasta inoperosa, neanche due settimane fa, due cacciabombardieri Mirage 2000, uno dei gioielli della sua aeronautica militare, di base in Giordania, avevano bombardato un sito petrolifero a Deir ez-Zor, ubicato nella zona sud-orientale siriana, giustificando la missione come necessaria dal momento che il petrolio di quella infrastruttura, era una delle fonti economiche dello Stato islamico e nel suo iper cineticismo, già il 7 novembre, aveva dichiarato tramite Hollande di aver schierato, di fronte alle coste siriane, la portaerei a propulsione nucleare Charles de Gaulle, il che, tradotto in moneta spicciola, ha significato: dodici caccia Dassault Rafaele, nove Super Etendard, quattro elicotteri, che vanno ad aggiungersi ai sei caccia Rafale, già presenti negli Emirati Arabi Uniti e ai sei cacciabombardieri Mirage in Giordania, un Atlantique 2, pattugliatore marittimo, un aereo cisterna C-135 e non solo: l’ Opération Chammal in Iraq, ha messo in campo per l’utilizzo di questi mezzi ben settecento uomini per quasi duemila missioni aeree, sganciando per il momento circa duecentosettanta bombe che hanno causato la distruzione, secondo fonti della difesa francese, di almeno quattrocentosessanta obiettivi sensibili. Ma non finisce qui: oltre ai raid in Iraq, si sono aggiunti quelli fatti in Siria il 27 settembre, sempre utilizzando la stessa toppa che fa dire a Hollande che vi era la “necessità di colpire terroristi che preparavano attentati contro la Francia”. I bombardamenti erano stati preceduti da numerose missioni ISR che avevano mappato interamente il territorio siriano e sempre a settembre, l’APTN, (Associated Press Television News) conferma che Parigi, con l’invio di apparecchiature e denaro ufficialmente da utilizzare per la ricostruzione di pozzi d’acqua, asili, scuole, panifici, in realtà si muove a favore e finanzia i ribelli anti Bashar Assad i quali, di fatto, occupano ben cinque città siriane. In aggiunta a tutto questo, ritroviamo la longa manus francese anche in Libano, dove, la notizia è più o meno nota, è stato stipulato un accordo di cooperazione militare che vede impegnata la Francia a consegnare entro il 2018 armamenti quali caccia, navi, veicoli blindati, pezzi di artiglieria varia, per un valore di svariati miliardi di dollari e a inviare sessanta militari cui spetterà il compito di addestrare le forze libanesi ai sistemi d’arma forniti. Sotto questo aspetto bisogna riconoscere a Hollande la capacità di condurre trattative sempre con esito a lui favorevole, perché nel mettere a punto il ridimensionamento della propria presenza militare in Medio Oriente e nel contenente africano, il 13 novembre, il Dipartimento di Stato USA, ha consentito alle forze armate francesi di acquistare quattro aerei C-130J e non solo, qualche mese prima, sempre il Dipartimento di Stato USA, aveva dato il permesso di vendita alla Francia di 200 missili AGM-114K1A Hellfire, per una cifra che si aggira, euro più, euro meno, intorno ai trenta milioni di dollari. Ma il buon Hollande, in maniera lungimirante, già dall’estate del 2014 in quella che va sotto il nome di operazione Barkhane, concepita per combattere “Il terrorismo di matrice islamica”, aveva dispiegato più di tremila militari in una vastissima area che si estende tra il Ciad orientale, il Niger, il Mali, il Burkina Faso e la Mauritania, dove (in particolare nel Mali), guarda un po’, ci sono miniere di oro e di uranio. L’impegno di Hollande è pressante e continuo: a febbraio, in un’azione nel nord del Mali, truppe francesi si scontrano e scannano una dozzina di miliziani islamici (tra Boureissa e Abeissa che si trovano a un centinaio di chilometri di distanza da Kidal che è punto di riferimento territoriale di ribelli separatisti Tuareg), a metà maggio nel 2013, sempre nella stessa area, militari appartenenti al I Reggimento Paracadutisti della fanteria di marina, uccidono quattro presunti dirigenti di Al-Qaeda, su cui cadevano i sospetti della morte di alcuni cittadini francesi tra cui i giornalisti di Radio France International, Claude Verlon e Ghislaine Dupont, azione, dopo la quale il ministro della difesa Laurent Fabius, in maniera dura e senza appello, dichiara: “Noi non dimentichiamo e colpiremo anche tra cento anni, ma raggiungeremo tutti quelli che hanno fatto del male alla nostra nazione.”. “Analisi Difesa”, una rivista mensile presente sul web, che tratta argomenti di Difesa italiana e mondiale e che propone l’osservazione di conflitti e di aree di crisi, fa una discreta e dettagliata rendicontazione riguardo l’operazione Barkhane, ci informa ad esempio, che le operazioni provengono da dieci basi diverse: la principale è a N’Djaména, in Ciad e impegna ottocento militari, mentre, nella base di Niamey, in Niger, ne troviamo altri seicento e circa mille a Gao, in Mali. Ma l’impegno è capillare, infatti, a Niamey, sono presenti tre droni, gli MQ-9 Reaper, come rafforzamento alla capacità di fuoco dello squadrone aereo di Cognac che in due anni e mezzo, può vantare missioni nell’Africa sub-Sahariana per più di quattromila ore. Altre installazioni militari, poi, si trovano a Tessalit (Mali), Fort de Madama (Niger) e Faya-Largeau (Ciad) e oltre ai droni Reaper, per la stessa estensione geografica, sono presenti anche due droni EADS Harfang, quattro caccia Dassault Rafale, quattro Mirage 2000, una decina di velivoli da trasporto, una ventina di elicotteri e una piccola flotta di circa quattrocento tra veicoli logistici e tank. Come se tutto questo non fosse bastasse, dal gennaio 2015, la presenza di Parigi si è fatta consistente anche, in Costa d’Avorio con l’operazione Licorne, per poter garantire la presenza di una base operativa avanzata, da dove, corpi scelti di militari abbiano la possibilità di effettuare velocissimi raid contro il terrorismo presente nell’Africa sub-sahariana e, dulcis in fundo, al summit delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, a conclusione dei suoi interventi, Hollande, non manca di far sapere che dal prossimo anno e fino al 2020, la Francia si occuperà di addestrare più di centomila militari africani dislocando a Gibuti, in pieno Corno d’Africa circa mille e novecento militari istruttori. La domanda che sorge immediata è: “Ma tutto questo non è politica coloniale?”, ma di quella che ha poco da invidiare a quell’altra i cui tempi dettavano: “Trois couleurs, un drapeau, un empire!”. L’ISIS dunque nell’attacco, ricorda e fa pagare al governo francese la propria entrata nella guerra siriana, perché ovviamente il vero contrasto si risolve tra due imperialismi, l’uno nascente che rivendica il proprio Medio Oriente e quello ben collaudato e vecchio del mondo occidentale, che mira da anni, con pretesti continuati e aggravati, rimanendo assiduamente in gioco da quelle parti, a continuare a metter le mani sulle ricchezze di quelle regioni, petrolio in primis. Da venerdì, sirene diverse ci raccontano di un clima di guerra a bassa intensità che coinvolge anche i sonnacchiosi avamposti del democratico Occidente, in realtà tali conflitti, ci percorrono da una quindicina d’anni e all’appello sono presenti tutte le maggiori potenze europee e non solo: oltre la Francia, abbiamo gli USA, la Gran Bretagna, la Russia di Putin, il cui scopo precipuo è potersi garantire economicamente gas e petrolio, allargando il raggio di azione prima dall’Iraq all’Afganistan e dopo in Libia e Siria, concentrando l’attenzione su qualunque territorio o paese che rivesta qualche importanza e interesse economico o strategico. E così succede che mentre piangiamo quei morti senza colpa, dimentichiamo che ISIS è figlio del Capitale, che utilizza ciò che gli è comodo, crea e snatura in ciò che è terribile per un tornaconto di profitto e fame di materie prime e che dalla propria creatura si smarca solo quando i pretendenti allo Stato Islamico, si danno uno status autonomo indipendente nelle azioni, ma anche nelle trattative riguardo i medesimi appetiti e non solo: si perde - talora in modo strumentale - anche la memoria su quanto si sia stati capaci di rendere il Medio Oriente una periferia del mondo, lugubre di stragi e morte continua, spogliato delle proprie ricchezze e abbandonato nella più cupa indigenza tra il primo e il secondo atto di guerre che si danno il cambio senza che mai se ne possa intravedere risoluzione, tra fame e dolore e la cui unica speranza di futuro resta la fuga verso quegli stessi paesi che ne hanno stabilito la disperazione. La barbarie dell’ISIS, è senza dubbio l’espressione più feroce, inumana, brutale e crudele nella quale può precipitare la razza umana, tanto più che per degli interessi economici, politici il nuovo Stato imperialista, confonde e irretisce masse di diseredati che nella religione credono di trovare la sola risposta, barattando la dignità di classe sfruttata, per una chimerica aspettativa ultraterrena. La barbarie sta nell’assassinio sistematico di civili inermi e impotenti, ma non meno rozza è la barbarie dell’imperialismo occidentale che, in tutte le guerre che decide di scatenare, al solo scopo di perpetrare un sistema economico la cui sopravvivenza è stabilita da crisi economiche, miseria, disoccupazione, sfruttamento di milioni di proletari, domanda agli stessi sfruttati, a quegli stessi proletari che il liberismo ha messo in ginocchio, di combattere a difesa di interessi che sono tutti della classe padronale. È importante dunque fare un paio di considerazioni: la borghesia francese, così come quella internazionale (a riguardo, Hollande non ha aspettato oltre le quarantotto ore), utilizzerà l’attacco a Parigi per intensificare e dunque giustificare la propria attività bellica che, se apparentemente si muove contro la jihad, di fatto è esclusivamente concentrata nel perseguire il proprio vantaggio economico in questa fase, che nei cicli di rottura tipici del capitalismo, si rende stagnante e di lontana ripresa, inoltre l’attacco a Raqqa tenta di rimettersi in pari con la strage di venerdì, solo che l’elemento discordante è l’informazione borghese che racconta, mentendo, di un attacco che avrebbe investito solo obiettivi sensibili quando invece ha anche squassato esistenze e abitazioni di civili innocenti, già lungamente provati dalla ferocia dei banditi dell’ISIS. La barbarie di Parigi, va di pari passo con quella terribile dei droni che in Siria, mietono migliaia di vittime civili, che bombardano ospedali e il cui effetto domino, crea una devastante eco di effetti collaterali incontrollati e incontrollabili, ma per questi morti non c’è mai stata la stessa solidarietà. Ragionando per esemplificazioni, si può tranquillamente affermare che in Siria, troviamo la Repubblica Siriana, appoggiata dalla milizie sciite libanesi degli Hezbollah, nelle quali sono confluiti gruppi armati sciiti yemeniti e forze del Fronte per la liberazione della Palestina Comando Generale ( PFLP-GC ), al fianco di quali è recentemente attivo il sostegno militare russo, cosa che è accaduta con una mossa veloce di Vladimir Putin, che a settembre, nell’incredulità internazionale, ha schierato parte del suo esercito a Latakia, impegnando decine di jet, elicotteri, carri e mille e cinquecento soldati. I raid aerei condotti, fin dall’inizio dimostrano che l’interesse principale della Russia è quello di difendere Assad, il cui padre era alleato dell’Unione Sovietica, per potersi così ritagliare uno sbocco nel Mediterraneo e contemporaneamente trattare con un ottimo acquirente di armi. Questa è la sola ragione per cui Putin, ha colpito sia i ribelli alleati di Al-Qaeda, i ribelli armati dagli Stati Uniti e le postazioni ISIS, se, infatti, l’America fino a qualche tempo fa, operava un distinguo tra nemici di Assad moderati e nemici di Assad jihadisti, per Putin è sufficiente che siano nemici di Assad, scenario, questo che indirettamente ha l’appoggio di Iraq, Iran, Corea del nord, Cina e Algeria. Sull’altro fronte, invece, troviamo i disertori delle forze armate siriane, che assieme ad altri hanno formato l’Esercito Siriano Libero, il Fronte Al-Nusra (la declinazione siriana di Al-Quaeda), ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e Levante) insieme questo, che essendo nemico di Assad, tutto sommato non è guardato con sospetto da Turchia, Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Arabia Saudita e Qatar. A questi, si aggiunge un terzo fronte che è quello curdo, a Kobânê nel nord della Siria, che combatte non solo le forze governative ma anche contro l’ISIS, in un terreno di scontro che si rende multiculturale e multi religioso, dove la maggioranza sunnita convive con minoranze druse, sciite e cristiano ortodosse siriache, un insieme dove la ricchezza culturale ed etnica è estremamente ampia: arabi, curdi, turchi e armeni; e finalmente, per concludere e per complicare ulteriormente lo scenario, c’è poi Israele, che dal 1967 occupa le alture del Golan. Gli interessi sono dunque molteplici, spesso in conflitto e spesso collimanti. Su Bashar al-Assad, presidente siriano, di fede sciita e di corrente Alawita, vanno dette alcune cose: ha patito buona parte della giovinezza all’ombra del fratello Basil, che invece sembrava brillare di luce accecante e non solo; nei primi anni della presidenza, forse a ragione, ha sofferto il confronto con il padre Hafiz, personaggio chiaroscurale e forte e comunque di ampia retorica consolidato, patriarca della nazione, artefice del regime regime baathista . Ma nel suo percorso, Assad, figlio e seconda scelta, nel 2007 si riscatta in un fermo e deciso senso di rivalsa: se per Assad padre, l’isolamento internazionale era anche una questione d’orgoglio, Bashar, non condivideva la scelta isolazionista del suo genitore e nel luglio del 2000, pareva che ci fossero reali possibilità perché quel cambiamento avvenisse, che ci potesse anche essere un avvicinamento agli Stati Uniti e che si potesse avviare una tiepida stagione di riforme, tanto che durante la prima guerra del Golfo, dette man forte agli Usa per rovesciare il regime di Saddam (v’era stata infatti una scissione nel Baath e si erano divisi i partiti di Iraq e Siria in due frange nemiche tra di loro). Nel giro di pochi mesi però le cose cambiarono, nell’autunno di quello stesso anno, infiamma la seconda Intifada: Assad, annuncia in maniera chiara e decisa che non intende più negoziare con Israele; l’anno dopo, l’attentato contro le torri gemelle incancrenisce la situazione, la trasformazione ideologica della politica estera statunitense nell’agenda Bush, spiazza il giovane Assad, che ha chiaro quanto la Siria sia fuori dai giochi. All’assassinio del premier libanese Rafiq Hariri, nel febbraio del 2005, l’attenzione era tutta su Damasco. Le pressioni internazionali si fanno incalzanti. Bush e Chirac addirittura rilasciano un’intervista congiunta che impone il ritiro immediato delle truppe siriane dal Libano, ai fianchi lavorano anche Germania e Arabia Saudita e perfino la Russia non si esime e così Assad è costretto a dichiarare che ritirerà le proprie truppe dal territorio libanese “entro i prossimi due mesi.”, cosa che avverrà puntualmente. In questo scenario sembra che Bashar sia politicamente esanime, isolato dal mondo arabo, guardato a vista dall’Occidente e perdente in Libano, terreno dove si riteneva più forte, ma invece Damasco tiene, il fronte non si sfrangia e il giovane governante, rafforza il suo potere, allontanando gran parte della vecchia guardia. Dopo aver ripreso ossigeno e sopravvissuto al peggio nel 2005, Assad, si rende inarrestabile nel 2006. In Iraq gli americani hanno un momento estremamente difficile, George W. Bush è in empasse: riprende il conflitto tra Hezbollah e Israele che si rivela devastante, con un Libano in ginocchio, con innumerevoli vittime e nuovamente da ricostruire e con Hezbollah che invece la considera una vittoria morale, è una strategia che Bashar vive come un notevole successo proprio, pensando di aver se non sconfitto, almeno messo in seria difficoltà Israele e di essere stato capace di ottenere risultati, laddove suo padre per ben due volte aveva fallito e così, in questo clima di sicurezza e spavalderia, Assad, facendo della propria conduzione politica una holding di famiglia, affida l’esercito al cognato Assef Shawkat e mette a capo della sicurezza suo cugino Rami Makhlouf e sua moglie Asma. La sua a oggi, resta una politica fortemente anti-israeliana e dunque anti-americana, rivendica la regione del Golan che Israele ha occupato, ha offerto ospitalità ai rappresentanti di Hamas e finanzia le frange libanesi degli Hezbollah e si tiene saldamente ancorato all’alleato russo, che ha tutti gli interessi a che il regime siriano resti in piedi per fare da muro alla coalizione occidentale. Di contro per gli USA, liquidare il regime di Assad, si rende necessario, perché in questo modo sarebbe possibile isolare la Russia e si potrebbe avere mano libera nella costruzione del gasdotto TAP, che consentirebbe ai paesi europei il rifornimento di gas dall’Azerbaigian invece che dalla Russia. Altra protagonista in questo scenario è l’Arabia Saudita, alleato per eccellenza degli USA, appoggia le forze ribelli islamiste tese ad abbattere il regime di Assad e poter dar vita a un emirato arabo siriano di matrice sunnita. In Arabia Saudita, fin dal 1926, è insediata una plurimiliardaria famiglia di antichi emiri di religione islamica sunnita e che sono all’interno del movimento riformista wahabita, che stabilisce si acquisisca, fin dalla tenera età, la conoscenza del Corano, in scuole che ne diano una interpretazione letterale e che considera pagani, ostili e nemici dell’Islam tutti coloro che in modo non ortodosso e preciso seguano i loro dettami religiosi, anche se musulmani; va detto che in Arabia Saudita il modello di stato è la monarchia assoluta, ovviamente con diritti civili ridotti al lumicino. Del sunnismo wahabita ne alimenta le espressioni più radicali in Nord-Africa e in Medio-Oriente, contrastando la corrente sciita, ma muovendosi in termini di contraddizione che si fa fatica a seguire: la primavera araba, la vede in prima linea nel sostegno al governo sciita del Bahrein per contrastare la rivolta popolare sciita, che nel paese, rappresenta la maggior parte della popolazione, nel tentativo, avendo accettato l’aiuto sunnita, di togliere potere a un presidente che, come sciita, i wahabiti, non possono che ritenere eretico e soprattutto con l’intenzione di ristabilire il primato sunnita in Siria. Ma oltre queste rocambolesche piroette l’Arabia Saudita, ha offerto la base da cui si si sono sviluppate le direttive che hanno coordinato le due guerre del Golfo contro Saddam Hussein ed è insieme a Pakistan ed Emirati Arabi, l’unico stato ad aver riconosciuto per via diplomatica il regime dei talebani in Afganistan e nel 2015, sempre l’Arabia Saudita, si è alacremente dedicata al bombardamento nello Yemen contro le postazioni militari sciite in una situazione certo non facile e di forte conflitto interno. Un discorso a sé merita Israele, che ha come precipuo scopo di difendere i territori della Siria che occupa e che sono sotto il proprio controllo, l’abbiamo vista recentemente attaccare Damasco, avversa sia a postazioni governative che Hezbollah, e non pare particolarmente in pensiero per l’ISIS, probabilmente perché dispone della migliore intelligence al mondo, alle cui spalle, bene o male c’è sempre quella USA e poi perché può mobilitare in tempo reale volumi di reazione a fronte dei quali ognuno magari, rimane un attimo a riflettere. Ciò che interessa particolarmente Benjamin Netanyahu e di ritagliarsi un ruolo predominante nei defatiganti negoziati che da anni sono in corso tra Teheran e Washington e più che la guerra delle milizie sunnite a dare preoccupazioni, sono i tentativi del regime iraniano di alzare la testa, perche, infatti, tra i terroristi islamici sunniti e il primo ministro, è come se vi fosse stato stipulato un patto di non belligeranza. Il Califfato non ha mai davvero espresso una pur qualche forma di solidarietà nelle questioni palestinesi o di vicinanza ai combattenti di Gaza e Tel Aviv, non ha mai espresso particolari opinioni sugli attacchi aerei contro le postazioni dell’ISIS, né ha partecipato alle paturnie main streaming sui pericoli del Califfato. Israele ha in realtà tutti gli interessi nell’utilizzare i terroristi sunniti in chiave anti sciita e dunque il funzione anti-Iran o al massimo lasciare che sciiti e sunniti si scannino nella più devastante battaglia mediorientale, affinché entrambi si indeboliscano, ciò che, invece, la preoccupa davvero sono gli attacchi di Hezbollah, la milizia sciita libanese, la vera espressione armata dell’Iran e legata strettamente al presidente siriano Bashar al Assad (basti ricordare che dopo la guerra del 2006, vi fu l’episodio dei guerriglieri sciiti che attaccarono un convoglio israeliano, ammazzando due uomini). Inoltre Hezbollah, guarda con curiosità e simpatia Hamas e nebulosa potrebbe essere anche la fornitura di armi e soldi da parte di questi, cosa che se non avviene attualmente, va detto che Hamas, in passato è stata finanziata direttamente da Teheran. La minaccia libanese dunque, che soffia di vento ostile, Israele non è riuscita mai davvero ad allontanarla e i jihadisti da questo punto di vista possono ritornare utili. I sunniti – ISIS – reputano gli sciiti degli infedeli e per questi mettono in conto l’eliminazione che è addirittura prioritaria rispetto ai non musulmani, quindi ISIS, si può considerare in pieno conflitto con Assad, Hezbollah e Teheran e di conseguenza con quelle forze politiche che anche Israele avversa. E non solo, Damasco è molto più debole ora, da quando la crisi in Siria s’è resa endemica nella recrudescenza del terrorismo e nelle diverse fazioni in lotta tra di loro e Israele, con cui è almeno formalmente in guerra dal 1967, con questi problemi aperti e difficilmente colmabili riguardo le Alture del Golan, ha ampiamente realizzato le scarse, se non nulle, possibilità di Assad, di poter sostenere un conflitto. In questo mare magnum di popoli, di interessi, di nemici, di guerra, di alleanze complesse e variabili, di morti e di gente che soffre, c’è la Turchia la quale fa parte della coalizione della NATO dal 1952, che mira a entrare nell’Unione Europea e il cui presidente, reazionario e islamico, Recep Tayyip Erdoğan, ha chiarito in maniera chiara e inequivocabile il suo concetto di come si governa un popolo, dandone un saggio nella feroce repressione di piazza Taksim del 2013 ignorando del tutto le critiche dell’opinione pubblica internazionale e quelle del Parlamento Europeo, organismo che lui non considera legittimo perché non riconosce il Parlamento Europeo (questo ovviamente, in aperta contraddizione con la presenza della Turchia nella lista d’attesa per esser ammessa nell’UE). Sono note a tutti le sue posizioni negazioniste sul genocidio armeno ed è un convinto persecutore della minoranza curda del paese, perché sull’onda dei risultati delle urne, si è dedicato con pervicace sollecitudine a bombardare i curdi, sia quelli presenti all’interno del paese che quelli che vivevano in area curda e irachena dal momento che tra le sue priorità c’è quella di ridurre quanto più possibile gli spazi di autonomia di quel popolo. Dopo Parigi, la questione sicurezza, il dibattimento delle numerose problematiche internazionali, passando dall’economia, alle annose questioni ambientali, si renderanno il filo conduttore apparente al G20, dove si assisterà al monumentale riassetto delle più astute borghesie internazionali. “Dal G20 arriverà un messaggio forte contro l’ISIS.”, così ha dichiarato Erdoğan, in apertura dei lavori del meeting, rimarcando l’importanza dell’unità contro il terrorismo per sventarne gli asset finanziari, terrorismo che nel caso delle giuste istanze di liberazione del popolo curdo, non ha mai visto lo stato turco timido in una risposta che invece è stata sempre feroce e sempre ovviamente indifferente, alle morti della resistenza curda a Kobane contro l’ISIS e peccato che, malgrado l’ineccepibile promessa, sono almeno quattro anni e mezzo, da quando la Siria è al centro di un conflitto squassante, che molti paesi, Turchia in primis, abbiano alimentato, finanziando, economicamente, militarmente, logisticamente lo Stato Islamico. Abbiamo tutti ancora negli occhi l’immagine dei blindati turchi che, immobili, si stagliano sull’orizzonte di Kobane, mentre i tagliagole dell’ISIS, assaltano, distruggendola la città curda, oppure il video che ha significato la prigione per il direttore del quotidiano Cumhuriyet, il quale filma i camion che, con il benestare del governo, carichi di armi viaggiano alla volta dei gruppi fondamentalisti in Siria e come risuonano di beffa ma risolutrici, le dichiarazioni di Ahmet Davutoglu, braccio destro di Tayyip Erdoğan che prospicienti le elezioni, con l’attentato di Ankara ancora sporco del sangue dei suoi oltre 100 morti, definisce il Califfato ingrato e traditore. Di fatto Erdoğan resta uno degli avversari per eccellenza di Bashar Al Assad e di ciò che lo circonda, soprattutto dell’Iran sciita e anche qui, si registrano affermazioni al vetriolo: “L’attuale presidente siriano, che ha massacrato il suo popolo, non ha un posto nel futuro della Siria né lo avrà mai.”, cosa questa pronunciata nella conferenza stampa di chiusura del summit del G20 di Antalya. Erdoğan ha sempre avuto in mente come obiettivo quello di destabilizzare il leader alawita e di poter raggiungere e conquistare militarmente ed economicamente, un’area che si estende dall’irachena Mossul alla siriana Aleppo, nella parte nord dello Stato islamico e non è neanche notizia remota, quella del quotidiano filogovernativo Yeni Safak, per cui il governo avrebbe stanziato in Siria, il dispiegamento di un enorme contingente e tutto questo entro dicembre, per creare aree sicure, è ovvio che tale azione, non è assolutamente tesa a tutelare i siriani di origine turca ma è piuttosto preparata per anticipare l’evenienza di una possibile espansione delle forze curdo-siriane nel PYD che mirano alla costruzione di una regione indipendente ai confini del Kurdistan turco. C’è da aggiungere, inoltre che fin dall’inizio, l’avanzamento dei miliziani dell’ISIS, non erano esclusi dai piani di Ankara, dal momento che per conto di precisi interessi, questi andavano a svolgere il lavoro sporco. Con l’ingresso in campo della Russia, Erdoğan, dichiara dunque guerra al terrorismo, peccato, però che nei raid investa sempre obiettivi altri, poiché fino ad oggi, nel bilancio, l’aviazione turca ha colpito, sì e no, un paio di obiettivi sul Califfato e circa trecento dei curdi del PKK o di quelli siriani. Gli USA, protagonisti internazionali e deus ex machina del blocco imperialista occidentale, hanno, in tutta l’area, numerose basi militari che aderiscono alla NATO. Danno il via, dopo l’11 settembre 2001, alla guerra al terrorismo, cosa questa che, dopo due mesi, consente loro di entrare in conflitto con l’Afghanistan dei talebani, in un’escalation che nel 2003 offrirà il pretesto per attaccare l’Iraq di Saddam, nonostante il veto contrario del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Utilizzano o meglio, il termine che ne dà maggiormente il significato è: si approfittano della Primavera Araba per dare ossigeno ad alcune rivoluzioni e intanto rovesciare regimi di paesi non allineati. Nel 2011, equipaggiano, addestrano e foraggiano le forze ribelli in Libia e le supportano con attacchi aerei della coalizione occidentale, in questa situazione, la Francia di Sarkozy, mostra la sua vecchia indole mai disconosciuta di paese coloniale, con una forte posizione interventista per quanto riguarda il petrolio libico che il governo italiano controllava per la quasi totalità. Ad oggi, la Russia di Putin, realizza il conflitto siriano e vi entra direttamente per sostenere Assad, assicurandosi che rimanga saldo al potere, dal momento che questo è il suo più forte alleato contro il blocco occidentale e sotto questo punto di vista l’intervento militare russo in Siria va visto nel tentativo di attacco a tutte quelle forze islamiste che combattono le forze governative. Infatti, i caccia russi SU-34 bombardano i pozzi petroliferi occupati dello Stato islamico in Siria e bombardano anche Aleppo e Idlib nel nord-ovest e Raqqa nel nord-est; vi si intensificano inoltre i servizi di intelligence nella zona, compresa la ricognizione satellitare, che è alla ricerca delle autocisterne che l'ISIS usa per trasportare il petrolio dalla Siria all’Iraq. Con buona probabilità dunque, è anche per far fronte a questo aspetto del conflitto, il motivo per cui è stato deciso di duplicare il numero totale degli aerei impegnati nei bombardamenti in Siria, portandoli a sessantanove. Nei riguardi della Siria l’obiettivo degli USA è quello di rovesciare Assad, in modo da poter avere un occhio attento a insediare un governo, che se di certo non gli è favorevole, almeno non è filo-russo, ma l’entrata della Russia nel conflitto ha lasciato gli occidentali disorientati, dal momento che, con l’aiuto di Putin, potrebbe diventare possibile che Assad riesca realmente a sedare la rivolta e conservare il potere e comunque, anche se questo non dovesse essere, gli USA non sarebbero i soli a poterne dettare le condizioni dell’uscita di scena. La questione siriana, si rende così complessa, proprio perché vede in campo forze, obiettivi e nemici assolutamente diversi. Le forze occidentali non hanno alcun interesse reale a fare terra bruciata ai fondamentalisti islamici, dal momento che il rischio di rafforzare la posizione di Assad si rende troppo pericolosa e in più, consentire alla Russia e alle forze governative di agire indisturbate, darebbe tempo ad Assad di riguadagnare terreno e il controllo del paese, soffocando la rivolta. Gli attentati a Parigi, hanno dato il là alla Francia e ai paesi occidentali per forzare ulteriormente il conflitto siriano a sostegno delle proprie ragioni imperialistiche ma il rischio di scontro con la Russia, sarebbe stato davvero gigantesco e questo è il motivo per cui non appaiono così peregrine le ipotesi che vogliono i servizi segreti occidentali consapevoli degli attentati e che abbiano abbassato la guardia, per non perdere l’occasione imperdibile per un intervento di rinnovato vigore. È necessario dunque fare chiarezza, senza indugiare nell’ipocrisia di una solidarietà a senso unico, la Francia non solo non è vittima ma in questo conflitto globale è presente e protagonista, colpevole, come tutti i paesi occidentali del fondamentalismo islamico e del consenso che ne riceve dalla penisola arabica. La jihad, è dunque lo strumento che l’occidente utilizza per creare confusione, paura, per rimescolare le carte in scenari politici distanti che rivitalizzino e rafforzino il dominio della NATO, oltretutto anche Renzi gioca un suo ruolo, perché la sua visita di qualche giorno fa a Riad, ne ha dato il chiaro segnale di un rapporto che si vuole rendere solido con la dinastia saudita. Quanto sia funzionale il fondamentalismo islamico e quanto le azioni dell’occidente si orchestrino perfettamente con delle reazioni a catena, si può dedurre dall’ennesima strage che vede ventisette morti in Mali: immediata la riposta imperialista francese. È di novembre la dichiarazione di Hollande che escludeva un intervento in quel territorio e incredibilmente i qaedisti a Bamako, ne hanno sconfessato le intenzioni, qaedisti che l’intelligence francese sostiene finanziati dal Qatar e dagli stessi paesi del golfo che hanno sostenuto interventi in Libia e in Siria ma anche autofinanziati attraverso i sequestri e dalla disponibilità di armi che è possibile reperire nella vicina Libia, dove interi arsenali di Gheddafi, sono stati saccheggiati. Al di là delle motivazioni ufficiali, l’obiettivo è di proteggere e allargare le posizioni economiche strategiche del capitalismo francese nella regione, il Mali, miniera a cielo aperto e non solo di risorse naturali e potenziali e non solo in quanto terzo produttore africano d’oro ma gancio strategico indispensabile, dal momento che confina con numerosi paesi che ospitano le multinazionali dei grandi gruppi francesi come Total e Areva. Il gruppo Areva in Nigeria si rifornisce per almeno un terzo del suo fabbisogno di uranio. La Total, utilizza il petrolio della Mauritania, il capitalismo francese imperversa per tutta la Costa d’Avorio, le immense riserve di gas e petrolio dell’Algeria, la rendono il principale partner commerciale in Africa; sono soprattutto gli interessi della grande borghesia dei paesi attigui dunque, a rendere il Mali di importanza vitale. Hollande ha ricevuto l’approvazione riguardo quest’intervento sia dell’Assemblea nazionale che del Senato, ha il consenso dei socialisti, dell’UMP e del Front National, del Front de Gauche e del PCF e ovviamente spiega il proprio intervento come necessario, data la minaccia orrorifica dell’espugnazione di Bamako da parte degli integralisti islamici. Il pretesto ufficiale è dato dal fatto che tale urgenza mirerebbe a bloccare l’avanzata delle milizie islamiste, annichilirle e proteggere in questo modo le popolazioni dalle loro vessazioni. Naturalmente, secondo un vecchio e indecente copione, oramai consolidato, altre guerre hanno avuto come suffisso a qualunque operazione di camouflage, l’aggettivo umanitario: la guerra contro la Serbia, si rendeva necessaria per proteggere gli albanesi, gli Stati Uniti, hanno invaso l’Iraq per tutelare gli sciiti e così per l’Afganistan per proteggerne le donne e colpire il terrorismo, la guerra in Libia andava assolutamente portata avanti per il massacro che ne avrebbe subito la popolazione di Bengasi. Si afferma che l’intervento francese sarebbe stato richiesto dallo stesso regime maliano, dimenticando che questo è a sua volta, una dittatura militare colpevole di parecchie brutture tra soprusi e assassinii, ora se il voluto equivoco sarebbe quello di dare ad intendere che in Mali, la dittatura in militare si riveli meno dannosa della jihad, si finge di non ricordare quando in Libia, l’aviazione francese - alleate Gran Bretagna e USA - supportò le milizie jihadiste per rovesciare Gheddafi. I paesi occidentali, organizzarono i propri attacchi in modo tale che i movimenti di terra, di gruppi come quello di Abdel-Hakim Belhaj, legati ad Al Qaida, si impossessassero di Tripoli e infatti così fu per il combattente islamista, dopo la sconfitta delle forze leali rimaste a combattere per Gheddafi e a quei tempi, l’informazione occidentale, ce li presentò, addirittura neanche come il minore dei male ma come dei legittimi e autentici rivoluzionari. In Siria, il dispiegamento di forze può paragonarsi a quello che era presente durante la guerra libica e questi, che rivoluzionari di certo non sono, hanno appoggi economici notevoli dagli agenti dell’Arabia Saudita e del Qatar e nell’apparente schizofrenia di un Hollande che dà il placet alla guerra in Mali con l’impellente urgenza di rispondere con forza al fondamentalismo e fautore di un intervento militare in Siria che appoggi le milizie fondamentaliste, a livello diplomatico dà riconoscimento al CSN, il Consiglio nazionale siriano che di fatto appartiene alle diverse anime e frange dei Fratelli Musulmani, dunque: è possibile appoggiare dei fanatici quando questi si rendono utili all’avanzamento dei propri interessi e sostenere o altresì definirli guerriglieri di giusta causa contro il regime di Bamako. In questo momento, la guerra portata in Mali, è a difesa del profitto di grandi gruppi capitalistici e per arginare le mire espansionistiche di paesi rivali, come il Qatar che attraverso le milizie Mujao e Ansar Eddine è interessato a ritagliarsi una fetta sempre più ampia di influenza e a rendere più stabile la sua posizione per quanto riguarda le future e possibili trattative. Hollande riceve aiuti dall’Arabia Saudita che con una mano dà ai movimenti fondamentalisti del mondo intero, dall’altro frena le pretese del Qatar in Africa del Nord che infatti ha rafforzato le sue posizioni in Libia, Egitto e Tunisia. Non sarà alcun intervento francese ad offrire una qualsivoglia forma di stabilizzazione, non certo in Libia, non in Afganistan, come è vero che l’intervento americano abbia mai concordato una qualche forma di pace sociale in Iraq e non è certo il capitalismo in Europa come in Africa a donare la speranza di futuro alle popolazioni, al proletariato, semmai ne è il cancro che ne avvelena ogni possibilità di autodeterminazione. E per finire, ritorniamo a Parigi, dove, dei nove componenti del gruppo di fuoco, sette sono morti e due ricercati e dove la cosa che dà più da pensare è che tra costoro, ben cinque erano cittadini francesi, nati e cresciuti in Francia, quindi occidentali di educazione e formazione, ma che, purtroppo per loro, sono cresciuti nelle banlieue, dove nascere è una bestemmia e vivere è peggio. Nel 2006 la Francia ha dovuto affrontarne la rivolta, ma quei disagi non sono mai stati risolti, sono stati soltanto repressi, rimanendo sopiti, pronti a riemergere con tutta la violenza possibile. Sarebbe forse il caso che i governi francesi si preoccupassero di estendere il loro motto “Liberté egalité, fraternité!” anche a questi quartieri nella volontà non solo di rendere gli sfruttati, rei di ogni nefandezza quando è comodo ma di guardare a costoro come il frutto dolente, arrabbiato di colpe non loro, guardare a costoro come l’impotenza armata di tutte le guerre passate e presenti e future che sulla loro pelle furono dichiarate e che non smetteranno di esser chiamate ancora.

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